XXI Secolo. Terra. Il mondo degli influencer. Se avessimo detto 50 anni fa, che tempo qualche decennio sarebbero stati più i parlatori che gli auditori, qualcuno ci avrebbe sorriso.
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Com’è nato il marketing
La progressiva diminuzione della censura mediatica nel mondo occidentale, iniziata nel 1766 in Svezia e allargatasi fino ai giorni nostri (almeno, fino a pochi anni fa…) ha favorito la nascita di un gran numero di editori. Il numero di pubblicazioni aumentò considerevolmente, i giornali erano sempre più presenti e la comunicazione diventò una vera branca dell’economia.
Fino agli anni ’90 dello scorso secolo, la situazione era comunque gestibile e passabile di previsioni da parte di un addetto marketing. C’erano alcune pubblicazioni locali e altre nazionali. Prima su carta stampata, poi radio e infine TV. Con un breve exploit dei cinegiornali, quando l’immagine in radiofrequenza era ancora un sogno futuro. Cambiava il mezzo, ma il linguaggio restava tutto sommato simile.
Le agenzie pubblicitarie nacquero nel periodo della rivoluzione industriale, quando per la prima volta l’offerta di beni superava la domanda. C’era quindi bisogno di trovare acquirenti per questo mare di prodotti, di convincerli che si fosse migliori dei concorrenti. Inizialmente, nell’800, era ancora abbastanza semplice seppur senza un passato a cui attingere. Si provò quindi con qualche trafiletto sulla carta stampata, alcuni manifesti negli angoli delle città e il proprio prodotto era portato alla conoscenza dei più.
Il primo pubblicitario della storia, fondatore del settimanale francese La Gazette nel 1631, fu Théophraste Renaudot. Un visionario vicino ai poveri, che oltre ad aver fondato quella che possiamo considerare la prima rivista moderna della storia, creò anche una sorta di agenzia interinale per ridurre la povertà dei più bisognosi.
Infine, tornando alla pubblicità, più il budget era elevato, più aumentava il numero di giornali locali in cui ci si poteva pubblicizzare. Fino a potersi permettere i nazionali, o ancor meglio allargarsi a varie nazioni. Basico.
Ma il cinema? Come si pubblicizzavano i film nello scorso secolo?
Il marketing per il cinema nel XX secolo
I pubblicitari del cinema dei primi anni (francesi prima, newyorkesi poi e infine hollywoodiani), iniziarono copiando la pubblicità teatrale, per poi comprendere di doversi conformare alla comunicazione dell’industria tradizionale.
Inizialmente si pensava infatti a vendere “un’esperienza”, non un prodotto. Si vendeva il cinema più come si sarebbe sponsorizzato un bel viaggio, piuttosto che come un bella automobile.
Non da meno, la produzione cinematografica degli albori era poco regolare, senza previsioni precise su se, e quando, il film venisse distribuito. Senza avere grandi idee sui futuri proventi e sulla durata migliori delle proiezioni per massimizzare il profitto.
Oggi può sembrare assurdo, ma dobbiamo considerare che all’epoca non c’erano molti dati a cui attingere. Era un mondo nuovo, fatto di sperimentazioni.
Il cinema da prodotto a stile di vita
Il dover vendere un prodotto per sua definizione non necessario, scoraggiava persino i migliori pubblicitari. Nessuno aveva la necessità fisiologica di vedere questo o quel film in particolare, né un film in generale. Dopo numerosi esperimenti, e gradualmente, si comprese che bisognava vendere un’esperienza; si doveva creare una community. Questa necessità di vedere il film, doveva in qualche modo essere legata ai bisogni primari dell’uomo.
Si doveva creare nel pubblico urgenza, FOMO, per acquistare un prodotto che solo in seguito si sarebbe potuto apprezzare.
E per fare questo, era importante lasciare un messaggio forte e proprio alla società.
Modificare lo stile di vita, creare movimenti, ideologie. Avere un impatto fortissimo sulla società del debito e del consumismo, deliberatamente voluta dal governo degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale per risollevare le sorti di un’economia messa a dura prova.
Quel consumismo che è riuscito a migliorare lo stile di vita degli americani prima, e degli europei poi, fino a circa gli anni ’80 dello scorso secolo quando finì il ”sogno americano”. Il cinema coadiuvava questo sogno, e gli addetti alla comunicazione cinematografica volevano far breccia nel cuore della popolazione.
Collezionismo e maturità del community marketing
Quindi non solo sala, non solo diritti TV, non solo VHS e DVD. Si sviluppò la cultura del ”gadget”, il collezionismo, i diritti d’immagine su ogni oggetto con la forma o il nome del proprio film o della proprio protagonista.
Dopo questi primi decenni tortuosi, finalmente il marketing per il cinema raggiunse i risultati sperati. Il cinema creava le mode, e poi le seguiva. A partire dagli anni ’50 ci fu una grande crisi: la nascita della TV causò una forte perdita di fatturato per le sale cinematografiche. Ma gli Studios erano sempre più vicini al loro pubblico, iniziando a progettare film che seguivano le tendenze in atto. Moti di ribellione, divertimento, fashion, rock ’n roll… Tutto per poter conquistare il pubblico, se non in sala, almeno nella TV di casa.
La stessa TV “passò quindi dall’essere uno svantaggio, a un grande vantaggio. Infatti l’uso della pubblicità in movimento e dei trailers, si rivelò ideale per il cinema; che poi, altri non è che il precursore di quella stessa televisione figlia e traditrice.
Marketing per il cinema – Letture consigliate
Libri in inglese
Per maggiori informazioni, ci sono vari studi in inglese riguardo il marketing nel cinema. Alcuni più incentrati sulla parte pratica, una sorta di how-to, come Movie Marketing: Opening the picture and giving it legs di Tiiu Lukk (Los Angeles: Silman-James Press, 1997), Open Wide: How Hollywood Box Office Became A National Obsession: Inside the Blockbuster Movie Factory di Dade Hayes e Jonathan Bing (New York: Miramax books/Hyperion, 2004) o Marketing to Moviegoers: A Handbook of Strategies Used by Major Studios and Independents di Robert Marich (Boston: Focal Press, 2005).
Altri testi sono più teorici, ideologici. Come Global Hollywood 2, di Toby Miller (Londra: British Film Institute, 2019), che studia l’influenza del cinema, soprattutto americano, nella società globale.
Studi disponibili gratuitamente in PDF
Un’importante studio del 2013 di Sheldon Hall, liberamente scaricabile da questo link (sito dello Sheffield Hallam University Research Archive), intitolato “Jerry Pickman: The Picture Worked. Reminiscences of a Hollywood publicist”, cita classici come The Greatest Show on Earth (Cecil B. DeMille, 1952), Shane (George Stevens, 1953) o Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) e personaggi famosi come Adolph Zukor o Alfred Hitchcock, mettendo però in risalto l’aspetto umano del marketing.
Ci ricorda che la pubblicità cinematografica ha le sue incertezze, ma è anche un’impresa umana che coinvolge individui come Jerry Pickman, grande pubblicitario morto nel 2010 che dedicò oltre 50 anni al marketing nel cinema. La cui dedizione può trasformare anche un film ordinario in un successo straordinario. Ultimo ma non meno importante, questa visione apparentemente unica del business cinematografico ci mostra come il marketing per il cinema si sia sviluppato a livello industriale all’inizio degli anni ’80, quando apparve il concetto che “ora vendi film come fossero hot dog, lo fanno tutti”.
Un ultimo consiglio di lettura viene da Stanley Kubrick. E’ interessante vedere il marketing con gli occhi di un regista, per comprendere come si possa conciliare arte e business. “Stanley Kubrick and the Marketing of Dr. Strangelove” (1964, PDF scaricabile da qui). A volte questi interessi convergono, spesso no. In questo testo Peter Kramer, attingendo agli archivi della London University of the Arts, descrive come Kubrick sia stato direttamente coinvolto nel marketing statunitense del Dottor Stranamore, sin dalle prime fasi. Al punto di impegnarsi a neutralizzare eventuali concorrenti.
Durante la produzione e la prima campagna promozionale del film, il famoso regista era molto abile nell’autopromozione; sebbene i materiali di marketing usati per la campagna marketing successiva all’uscita del film fossero stati incentrati su argomenti comuni come celebrità, commedia e sesso.
Gli albori del Social Media Marketing per il cinema
Nel 2013, il Toronto Silent Film Festival fu tra i primi ad usare Instagram per promuoversi. Il metodo fu studiato dall’agenzia di marketing canadese Cossette, ed era molto diverso dagli attuali: caricarono fotogrammi di film muti sul social americano, che scrollando la pagina andavano a comporre il film agli occhi dell’utente. Metodo originale, seppur non acquisì un gran seguito a causa del prematuro stato del social all’epoca.
Per curiosità, ecco gli account: tsff_1, tsff_2 e tsff_3.
Sempre in quei primi anni social, si cercavano modi per portare su questi la promozione tradizionale. Pensiamo al caricamento dei trailers, che però a volte dovevano essere drasticamente ridotti visti i limiti di durata dei video. Con gli occhi di oggi, ancora una volta sistemi poco efficaci seppur usati. Quasi a dire, “almeno sto sui social”.
Il film diventa funzionale al marketing
Si cominciò ugualmente a progettare campagne più funzionali. Restando in tema Instagram, il film su Steve Jobs dello stesso 2013 vide un suo account ufficiale, con pezzi di film, fotogrammi, brevi video e foto con frasi significative. Negli stessi anni si iniziarono a sperimentale nuovi aspect ratios per i film, almeno quelli indie, senza rinunciare a critiche anche molto sentite da parte dei puristi del cinemascope.
Tutto per avvicinarsi al pubblico, che cambiava abitudini: da TV e PC, gli schermi più utilizzati diventavano quelli degli smartphone. Si tentò di usare il formato quadrato, come fece Xavier Dolan nel film Mommy. Per poi rapidamente passare al formato verticale, in grado di riempire al meglio i piccoli schermi portatili e diminuire le distrazioni degli spettatori.
Negli ultimi anni si è anche passati a pensare veri blockbuster in formato verticale. Video verticali di lunga durata possono però risultare meno fruibili, o causare perdita di concentrazione, visto il mancato riempimento della nostra visione periferica. Ugualmente, il regista russo Timur Bekmambetov nel 2021 ha realizzato il suo V2. Escape from Hell con scene in formato verticale, usando la tecnica dello screenlife (mostrare le immagini come fossero riprese da uno smartphone, anche in modalità selfie) [AGGIORNAMENTO: si tratta di un refuso, fu solo un’idea poi abbandonata quella di realizzare il film in verticale], e seguendo la serie distribuita nel 2019 in esclusiva su Snapchat Dead of Night.
Già una distribuzione cinematografica esclusiva Snapchat, fa capire i tanti tentativi che registi, produttori e aziende stavano, e stanno ancora, realizzando per avvicinarsi al mondo moderno.
L’importanza della socialità umana
L’era degli influencers
Quello che mancava i primi anni dei social era, paradossalmente, il lato sociale. Le persone vogliono conoscere altre persone, non vedere pubblicità. Vogliono comunicare, provare empatia per qualcuno, sentirsi meno sole. Questo portò alla naturale evoluzione del social media marketing: l’inizio dell’era degli influencer, e dell’influencer marketing per il cinema.
Oggi è l’era degli influencers. Che, tra le altre cose, stanno diventando sempre più importanti anche nel mondo della cultura. Non è più un critico cinematografico, una rivista di settore o un importante media a sancire il successo di una produzione; anche per la mancanza sempre marcata di più quell’antica fiducia giornalista / lettore, persa dopo decenni di parzialità (per interessi quasi sempre economici) del mondo editoriale. E che continua a distruggersi ancora oggi, come dimostra l’atteggiamento di molto utenti su temi quali la pandemia Covid-19 e la guerra in Ucraina.
Sono invece le persone sui social network ad essere ascoltate con fiducia; in primis gli influencers, ma anche quelli che contano meno, utenti “normofollowati” che fanno breccia ancor più prepotentemente nel cuore di amici e parenti.
Insomma, se Gianni dice che devo vedere questo film… Vuol dire che devo vederlo.
Gli attori / influencers
L’influencer marketing è quindi adatto all’industria cinematografica? Ovviamente, le recensioni nei media tradizionali come la stampa o la televisione e la radio svolgono ancora un ruolo importante nell’ottenere pubblicità per film e produzioni televisive.
Abbiamo visto però che il ruolo dei media tradizionali nella comunicazione cinematografica sia scemato in favore della più genuina comunicazione interpersonale (il caro vecchio passaparola, tecnologicamente rivisitato).
I ”consiglieri” visti di miglior occhio sono appassionati di cinema, indipendenti. Di solito conoscono il loro pubblico, intanto perché simile a loro e anche per la continua interazione tramite chat, commenti e citazioni. La fiducia data dall’aver comunicato direttamente, privatamente, con il proprio ”mito” non ha eguali (chi di voi è stato a cena con un personaggio famoso può capire più o meno l’effetto). E spesso sanno offrire prospettive originali che nessun altro può dare.
Ora, facciamo un passo avanti. Immaginiamo per un attimo che l’influencer che stiamo seguendo, con cui stiamo parlando attivamente, è un attore nello stesso film. O, mettiamo, anche solo un tecnico. E che, come un amico, ci fa seguire le varie fasi della produzione, del dietro le quinte, ci chiede addirittura pareri sulla storia e, in caso ne fossimo esperti, sulla tecnica per la produzione del film stesso. Come andrebbe a finire? Otterremmo di certo uno sconto o un qualche vantaggio, vista ”l’amicizia” tra noi. Fosse anche la maglietta, il cappellino, il portachiavi, addirittura la possibilità di essere presenti sul set o alla premiere, o di far parte del cast magari con una comparsata. Le possibilità sono infinite, come infinita sarà la voglia di andare a vedere il ”nostro” film. Il film in cui partecipa un amico. Il film a cui abbiamo preso parte noi stessi. E cosa pensate, non lo diremmo a chiunque? Ecco, questo è il cuore del social media marketing per il cinema. Del marketing della fiducia, del ritorno al passaparola e alla vicinanza tra le persone.
L’importanza del coinvolgimento tra influencer
C’è una grande collaborazione nella comunità degli influencer. In primis sono colleghi, e tra colleghi ci si intende. Poi c’è una convenienza reciproca a conoscersi, soprattutto a farsi vedere insieme. I fans dell’uno diventano fans dell’altro, le possibilità di guadagno e di crescita si fanno più numerose.
Quindi, una volta che nella propria produzione si è pieni di influencer, diventa quasi automatico coinvolgerne di esterni. Altre persone che devono, altresì, essere emotivamente coinvolte. Quindi, inviti in area VIP e prime file alle anteprime, cene con la troupe. Come per i fans, ma le attività devono essere ovviamente più ”personalizzate”. L’influencer è abituato ad essere considerato importante, ed è quindi più complesso farlo sentire “migliore” degli altri.
È importante far intervistare i propri attori da altri influencers, in modo simile alla vecchia stampa. Puntare anche a blogger, podcasters e Youtuber esperti di cinema. Anche questi saranno felici di poter creare contenuti interessanti, e allo stesso tempo farsi conoscere dai fans delle proprie piccole star.
Sicuramente sono importanti le personalità collegate all’industria cinematografica, ma non bisogna assolutamente limitarsi a queste. Ci sono tante persone, tanti influencer anche piccoli, che si adattano per i motivi più vari a quel determinato prodotto che stiamo realizzando. E, di conseguenza, sarà in target il loro pubblico.
Un altro vantaggio, è che tutto questo è più economico rispetto alla pubblicità del passato. Richiede più impegno, mentale ma anche fisico, ma con la scelta delle giuste persone a monte i risultati possono essere inimmaginabili.
Resta un solo dubbio etico: un bravo attore, però poco capace di coinvolgere socialmente un pubblico, potrà non avere più le possibilità che aveva nel mondo di ieri.
L’influencer marketing per il cinema ha un futuro?
Questa è giusto una parentesi finale… Perché qui stiamo progettando il futuro, ed è giusto essere critici. Non sono qui per vendervi comunicazione social, ma per ragionare insieme.
Ormai le Elites hanno compreso benissimo l’importanza dei social. Questo potrà forse essere un male, perché chi comanda ha sempre un’antica idea in testa: il popolo è idiota. Per carità, potrei quasi dire sia vero. Ci facciamo rigirare come calzini ogni giorno dalle varie propagande (basti pensare a questo periodo, scrivo durante l’invasione / operazione speciale in Ucraina, il nome cambia rispetto a chi parla).
Qual è il problema, alias fortuna, in tutto ciò? Che tra miliardi di persone, ogni tanto qualcuno beve un bicchiere di troppo e inizia a ragionare. E ne esce un articolo in qualche strano blog o profilo social semi sconosciuto. Che altri, si tratti anche solo di 10 persone, leggono. E se una cosa è palesemente assurda, e quell’articolo la denuncia… Queste persone lo condividono. E poi ancora, e ancora, in una scala logaritmica di condivisioni che porta a riempire il web in pochi giorni.
Dicevo, problema e fortuna. Fortuna, perché non c’è più la miopia popolare di un tempo. Alla fine, molte cose diventano chiare seppur la politica del politically correct porta a non reagire. Stiamo zitti, ma almeno sappiamo. Problema, perché questo schema è riproducibile artificiosamente. E chi si occupa di propaganda politica lo sa bene… Si arriva quindi al paradosso che non sono più i giornalisti foraggiati dal Sistema a dirci ciò che il Sistema vuol farci sapere, bensì i nostri stessi amici. Riportando fake news, o rifiutando notizie reali ma che non sta bene divulgare.
Questo sarà un problema per i social? Ho paura di si, in futuro. Ci vorrà tempo, ma così come la carta stampata e le TV ieri, anche gli amici online perderanno la nostra fiducia un giorno. Socialmente, è preoccupante su più fronti. Ma dal punto di vista del business, iniziamo a ragionare su cosa potrà esserci dopo l’era degli influencer.
E manteniamo la qualità. Che, oltre ogni marketing, è la chiave per il successo.